giovedì 5 gennaio 2012

Babylon


Babylon, di Viktor Pelevin, gioca con gli schemi e le gestalt consolidate divertendosi a rimescolare le carte. L’impero del male sovietico si specchia nel binocolo rovesciato dei guru del marketing americano. A distinguere il capitalismo levigato e accelerato degli yuppies americani anni ’80 dalle vetrine impolverate e fuori moda della generazione Pepsi (il titolo originale del romanzo è proprio Generazione P) sovietica è l’inversione di un processo storico. Il post-socialismo non procede per disgregazioni successive delle proprie strutture sociali ma, al contrario, si disintegra accumulando. L’accumulazione selvaggia di merci innesca una spirale dissolutiva, in cui valore d’uso e di scambio si accoppiano dando vita a quello che appare come l’unico fattore di identificazione: il brand. Il marchio non è però un segno di prestigio sociale, uno status symbol che occidentalizza la società post-sovietica. Il brand è piuttosto una scorciatoia, una primitiva proiezione del desiderio che può permettere un accumulo vertiginoso di dollari in brevissimo tempo. Viene in mente il branding, rito estremo dei neo-primitivi occidentali, che rivendicano una forma di appartenenza anomala facendosi marchiare a fuoco.

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